Luca Carrocci

Luca dà i numeri.

Da quando l’hanno spostato di casella e messo nei morti di fame.

Luca è ossessionato dalle cifre.

Sa quanti giorni ha digiunato, quanti, esattamente, ha dormito su una panchina, a che ora, giorno e mese i carabinieri gli hanno annunciato che sua moglie lo aveva denunciato.

Adesso che ha un tetto, seppure provvisorio, Luca non conta più.

Le ore scorrono e lui le lascia andare. I giorni passano, ma l’elenco non gli interessa.

Adesso lui si muove solo per obbiettivi: il cibo, il sonno, il lavoro. Soprattutto il figlio.

Anche i libri che legge, e tanti, non contano. Sono gratis dice.

È una gran bella cosa. Ma occupano la vita, non danno un motivo.

I miei obbiettivi? Lavorare e rivedere mio figlio.

Sono 30 giorni che non gli parlo, racconta. Ma prima erano 303, perché il 2016 è bisestile. Adesso lo posso vedere una volta al mese, con l’educatore. E mentre lo sussurra osserva la foto grande, un bel primo piano, di Riccardo che sorride da un mobile. “La foto me l’ha data mia suocera”, che suocera non è perché la donna che gli ha dato un figlio non l’ha mia sposata.

Luca ha staccato gli occhiali dal volto, li pulisce con soffio e riprende a raccontare con un filo di voce.

“ Stavo parlando con l’educatore e con il bambino. Lui aveva un po’ di paura. Era un anno che non mi vedeva e, chissà, cosa gli avevano raccontato”.

È’ arrivata lei e gli ha allungato la foto.

“Per me è molto preziosa”, dice. “ È l’unica che ho” . E poi, della sua vita famigliare precedente, a parte i guai con la giustizia, è l’unica cosa che gli sia rimasta.

Gli anziani, a volte, fanno cose che non ti aspetti e capiscono cose che non sospetti.

Riccardo, già. Che adesso ha sei anni. Sei.

Luca inizia a spiegare perché ha cominciato a dare i numeri. Forse perché i numeri sono certezze.

“Sono del 1970. Ho 47 anni. Ho cominciato a lavorare che ne avevo 14. Ho sempre fatto l’aiuto-cuoco e poi il cameriere. Non mi potevo lamentare. Lavori stagionali, ma senza interruzioni. Faticosi, se vogliamo, ma mi consentivano di pensare al futuro. Poi la mia botta di fortuna. Mi assumono in una cooperativa sociale che si occupa di manutenzione del verde pubblico e privato: è il 2001 e mi trasferisco a Sanremo. Poi sempre con lo stesso lavoro vado a Genova dove conosco la mia compagna che lavora in una impresa di pulizie, poi ancora Sanremo. Abbiamo una casa, siamo felici, abbiamo tutti e due un lavoro. Mai stato meglio. Poi arriva Riccardo. Il cielo è a un dito, ma….”

Ma…“Una donna incinta – spiega – non è gradita. Iniziano le pressioni, il terrorismo psicologico. Orari, tempi e luoghi che non riesci a sostenere e nel 2008 mia moglie Cristina perde il lavoro”.

Adesso sono in tre, Luca però tiene botta e Cristina appena può, come può, riprende a lavorare.

Ma se prima il cielo era a un dito, adesso scivola a un braccio e poi scompare.

Nel 2012, la cooperativa in cui lavora Luca perde l’appalto e lui il lavoro.

Niente più giornate all’aria aperta che Luca adora, niente più il lavoro che si vede e diventa concreto. Ma Luca Carrocci che ancora non pensa ai numeri, ma alle cose che contano, non si arrende e torna all’antico.

Lavapiatti, aiuto cuoco, ogni cosa che possa portare, lecitamente, denaro.

La Riviera ha locali che aprono a singhiozzo e si accendono e spengono per le ferie estive e per sporadici weekend invernali. Non tutti, non sempre. Botte a gettone, chiamate improvvise, se piove resti a casa.

Ma per Luca va bene tutto. C’è un figlio da crescere, c’è soprattutto Cristina che tornata a lavorare con una certa regolarità, gli fa sponda. Sono ancora e, soprattutto, una famiglia con Riccardo che fa da collante. Adesso abitano ad Albenga.

Il problema di Luca non è solo il lavoro che va e viene, ma soprattutto una cicatrice che gli solca la fronte.

Dietro quei punti ci sono la storia di un incidente d’auto che nel 1991 lo riduce in fin di vita e che per due mesi, fra la fine del 2015 e il gennaio del 2016 lo riporta in ospedale.

I postumi gli causano dolori diffusi e forti emicranie. Forse quell’esplosione del male antico non è che il segnale di un’ansia costante, della tensione che da qualche tempo si inizia a registrare in casa. Liti, rinfacci, scontri. Ogni pretesto è buono per litigare. Mai violenza, tiene a precisare Luca, ma rabbia sì. “Non ho la pretesa di dire che ho ragione – ribadisce – ho fatto errori, di cui mi pento, ma ho anche subìto, e tanto. Forse, se avessi avuto un lavoro costante, se non mi fossi dovuto arrampicare sugli specchi per dare il mio apporto, non saremmo scivolati in questa situazione”.

E quando inciampi, cominci a cadere, rotoli e non ti rialzi più.

Diventi presbite: il tuo nemico credi di averlo di fronte e invece è lontano, generico, diffuso. Si chiamano sfortuna, circostanze, destino, vita. E la vita non fa mai sconti.

“Liti costanti, toni accesi, lo ammetto, come in tutte le famiglie che hanno dei problemi, ma forse noi, una famiglia non lo eravamo più. Una mattina ha preso il bambino e se ne è andata”.

Luca credeva fosse uno scoppio d’ira. Un gesto plateale. Non si preoccupa. Era il 25 luglio del 2016. Tre giorni dopo, il 28, alle 10.30, arrivano i carabinieri.

E Luca inizia a dare i numeri.

Gli fanno vedere la denuncia e l’obbligo di allontanarsi. Sono gentili e risoluti. Luca non capisce, è sotto choc, non accenna nemmeno a una protesta. Il suo mondo in frantumi ora finisce in briciole. Raccoglie, in tre sacchetti della spesa, qualcosa del suo guardaroba e scende in strada.

Della storia di Albenga parlano solide geometrie di pietra antica e il profilo austero dei palazzi. La sua vicenda recente è ricca di traffici e prospettive, anche se il suo centro storico vanta un primato sgradevole in provincia per spaccio e delinquenza nordafricana.

Un aiuto cuoco smarrito, che arriva in un giardino pubblico con tre sacchetti della spesa, colmi di cambi di biancheria, però non fa notizia e nessuno lo disturba.

Luca nasconde dietro a una siepe il suo guardaroba e si siede su una panchina. “Sono rimasto in quei giardini 13 giorni – racconta- 13 giorni senza mangiare. Ero instupidito. Non sapevo cosa fare, come muovermi. Non so come ho fatto a sopravvivere. Ero completamente sotto choc”.

Intorno a lui i topi dello spaccio si muovono frenetici, la manodopera del buco: distribuire, vendere, promuovere si muove operosa, ma su un altro piano. Non ha tempo per quella figura goffa, rannicchiata, assente, che resta ore piegata su se stessa, senza vedere, sentire, parlare. Un arredo umano, se umano si può ancora definire.

Luca per 13 giorni non mangia, ma soprattutto non esiste. Così nessuno della grande distribuzione dell’eroina e del fumo lo cerca, il porta a porta della droga lo ignora. E Luca si salva.

La botta rimane, ma lo stomaco ha le sue ragioni che il cuore non conosce.  E così si rialza, prova a chiedere intorno. Qualcuno nel giro della disperazione si intenerisce per uno più disperato ancora, fornisce qualche dritta, ma è estate e anche la carità va in vacanza. Nessun ufficio lo accoglie, nessuno gli sa fornire indicazioni. Ripassi a settembre, dicono. Ma è difficile spiegarlo alle gambe, alle viscere, al cuore che perde colpi, alla testa che gira.

Il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i carabinieri, canta il poeta, ma il giorno che si presenta in caserma instupidito e affamato gli danno tre scatolette di tonno e tre pomodori. Che Luca non dimentica. Riprende a mangiare e inizia con i prestiti. Lui non li chiama furti, ma la Coop ha banchi ricchi di merce, dove lui effettua, senza portarli fuori, alcuni prelievi fra i banchi. “Mangiavo solo la cosa che costava meno, non volevo fare dei danni e non volevo approfittarne. Non sono un delinquente”. La fame aveva preso il sopravvento sullo smarrimento. E aveva sdoganato la situazione.

“Ho dormito in piazza del Duomo ad Albenga per 94 notti. In piazza, per strada, quando faceva davvero freddo anche al pronto soccorso. Sono andato persino in ferie: 15 giorni giusti a Sanremo per vedere se trovavo da lavorare o un tetto, almeno del cibo. Poi sono tornato. E un carabiniere a cui facevo pena mi ha parlato dell’associazione “Padri separati”.

La prima volta non ci siamo capiti e l’incontro è andato buco. Pensavo fosse la fine. Credevo all’ennesima beffa, poi il 6 di ottobre ho cominciato a sperare perché ho conosciuto Mauro Lami e lui mi ha dato una speranza.

Quella di Mauro Lami è una storia che meriterebbe altre righe, un racconto a sé. Anche lui ha avuto i suoi guai, e ha un calendario di giorni disperati fatti di liti con la moglie, figli portati via, una vita paterna offesa e umiliata. Ma Lami arriva dal partito, un Pci antico, solido, un maestro che insegna a proteggere i deboli e ti dà metodo e ragioni. Mauro Lami ha, a differenza di Luca, una rete famigliare che lo sostiene e nel momento della disperazione fa quadrato e dà supporto. Ha un lavoro e quando supera la traversia  dolorosa e disperante della separazione, non dimentica e inizia a occuparsi “da comunista” di chi sta peggio. Diventa figura di riferimento per i padri separati che non hanno un tetto, che devono fare i conti con le bollette e con il cibo. Che dormono in auto perché non hanno più una casa. Aiuta a trovare un avvocato per fronteggiare una magistratura spesso superficiale e spietata che dà sempre, e comunque, ragione alle mogli. Mauro Lami è uomo attento e documentato. Militante nella testa e nel cuore. Si batte, lotta, si impegna. Viaggia in continuazione per quelli che non ce l’hanno fatta, che aspettano una mano tesa e sovente trovano uno schiaffo. È una vita dura, ma non sempre è merda. Come quando una famiglia genovese, dona alla sua associazione una casa. Magari è un po’ malconcia e fredda, sperduta com’è fra le colline del Monferrato, a Strevi, e ha tanto bisogno di manutenzione, ma almeno è un tetto. E qui Mauro Lami offre un porto alla disperazione di chi non ha più casa, non ha più sogni, a  chi ha smesso anche di sperare. Lui conosce la rabbia di chi ha perso tutto, il dolore dei sentimenti feriti, la solitudine. E così arriva un’opportunità per uno che si sente un ex di tutto: ex aiuto cuoco, ex giardiniere, ex compagno, ex padre,  ex uomo perbene.

La casa di Strevi si apre a Luca Carrocci il 1 novembre del 2016 e Luca, che è un timido (e questo fa un po’ incazzare Mauro Lami) gli dice solo a gennaio che l’impianto di riscaldamento ha qualche problema, cioè non funziona. Ma Luca ha paura di disturbare, si tiene stretta quell’opportunità e non vuole sembrare un rompicoglioni. Così resta oltre due mesi al freddo. Da quel primo novembre prende il treno tutti i giorni, va alla Caritas di Acqui Terme che dista una quindicina di chilometri, mangia e poi rientra. Se c’è lo sciopero dei treni, fa anche tre ore e mezza a piedi per un pasto caldo. “Ma a vedere qualcuno e ad avere una parvenza di famiglia non rinuncio”, spiega.

La casa ha molte camere, ma per ora c’è solo un inquilino. Nella sua stanza Luca ha un letto a una piazza, un mobile pieno di libri (“alla biblioteca di Acqui li danno gratis, se ne possono prendere quanti se ne vuole. Una meraviglia!”), e sullo specchio è fissata la foto di Riccardo. La cucina ha un tavolo in formica e due seggiole. Sul fornello una moka che ha sversato il caffè. Le ansie dell’attesa, un incidente, come se noi fossimo importanti. Una casa pulita, in ordine. Nella sua sobrietà, quasi asettica, sicuramente senza affetto. La casa di un uomo che non ha più sogni o che, forse, pensa soltanto ad un altrove.

Però è una casa che si tiene stretta. Ha lasciato Strevi solo il 31gennaio del 2017 per il processo ad Albenga.

Una cosa veloce, quasi sbrigativa. Come piace alla legge.

È andato a giudizio per minacce dove è stato condannato con rito abbreviato.

L’avvocato di ufficio non ha presentato ricorso: “La mia compagna ha voluto andare avanti a tutti i costi nella causa. Condannato con i benefici di legge. Poca roba e non vado in prigione. Mi spiace solo per il bambino”.

15 mesi, ancora numeri.

Rabbia? Rancore? “No, è tutto passato. A parti invertite non l’avrei mai lasciata in mezzo a una strada. Non l’avrei mai messa in ginocchio. Non le avrei mai tolto la dignità. Soprattutto perché è sempre la madre di mio figlio. Per lei, però, non è valso lo stesso discorso”.

E il futuro? “Adesso mi interessa solo trovare un’occupazione, so fare un mare di cose e non ho paura di faticare. Però mi guardano tutti con distacco e pensano che sia un caso disperato, che parli così per dire. Invece a me lavorare piace. Il mio sogno è avere un futuro per poter vedere mio figlio senza vergogna e senza paure. Questo lo vorrei davvero”.

Intanto, inginocchiati con gli attrezzi in mano lui e Mauro Lami scrostano un pezzo di terrazza che assorbe umidità e danneggia la casa dei vicini di sotto.

C’è il sole rovente e il caldo insopportabile, come solo il luglio del Monferrato sa sferrare.

Ma cosa può essere per uno che non ha mangiato per 13 giorni, dormito 94 su una panchina ed è stato due mesi al gelo di Strevi per non dire che l’impianto di riscaldamento era rotto?

Quanti gradi sono? “Non lo so”.

Forse Luca ha smesso di dare numeri.

 

Estate 2017

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